“Goditela”. Tutti mi ripetevano questo i giorni prima della gara. Perché la maratona di New York è un’esperienza che prima di tutto va goduta, chilometro dopo chilometro. È una gara che si nutre di emozioni, da quel brivido che ti corre lungo la schiena quando ascolti l’inno nazionale americano sul ponte di Verrazzano al misto di gioia e sfinimento che si impossessa di te quando tagli il traguardo a Central Park.
Dal momento in cui ho avviato la mia umile carriera di podista, New York è sempre stata il mio obiettivo, un momento epico al quale prendere parte prima o poi. E questo è successo nel peggiore periodo della mia vita. Ebbene sì, due enormi lutti in poco meno di un anno e mezzo, dei quali uno accaduto a tre settimane dalla corsa. Il cuore spezzato, la testa completamente scollegata. Lo ripetevo a tutti, se non fosse stata New York avrei mollato ogni velleità.
Invece ho capito che il destino aveva riservato proprio questo per me. Non so per quale motivo. Ultimamente ho smesso di pormi ogni domanda. Vivo e basta.
Come ho vissuto la mia maratona. In maniera più o meno imperfetta, con i crampi dal 36esimo e un senso di nausea che è durato per due giorni. Ma con la consapevolezza di essere riuscita a portare a termine una gara che è stata come un percorso di vita.
Un percorso di oltre 42 chilometri, oltre 26 miglia, attraverso cinque quartieri della Grande mela, ciascuno con le sue caratteristiche e con il suo tifo.
Il mio grande viaggio è iniziato all’alba, alle 5.30 per l’esattezza. Ora dell’appuntamento con Adriana, compagna di squadra della Canottieri Milano, alla Public library, punto di partenza dei bus che hanno condotto i maratoneti a Staten island. Un’isola che ha il sapore di una località turistica marina, con tanta vegetazione a farle da corollario e un forte, Fort Wadsworth, in prossimità del quale è allestito il villaggio della partenza. È qui che veniamo depositati alle 7.15 circa per prendere confidenza con lo spazio, bere un the e visitare gli stand. Un momento che temevo particolarmente, viste le tre ore da trascorrere lì prima della partenza ma che passa velocemente, complici le chiacchiere con Adriana e le code per accedere ai servizi sanitari e ai banchetti delle bevande calde. Alle 9.30 aprono le griglie e parte il circo. Vestiti che volano nelle ceste per la beneficenza, gambe che si muovono per il riscaldamento e tanto, tanto, nervosismo.
La partenza è adrenalina pura. Sotto un sole abbagliante a riscaldare una giornata dal freddo pungente, ti accorgi a malapena della salita del ponte di Verrazzano che porta subito verso Brooklyn, palcoscenico di band e tifosi scatenati che si dispongono lungo l’infinita Fourth avenue. È un vialone anonimo che conduce alla mia amata Williamsburg, zona hipster e radical chic, e poi via verso il Queens e il suo temuto Queensboro bridge, tappato dalla gente che faticava a portare a termine l’infinita salita verso Manhattan, in prospettiva di una curva dove il tifo non conosce sosta. Sulla First Avenue c’è mio marito Dario ad aspettarmi, poco prima del 30esimo. Sono io a vederlo, lui mi rincorre per cercare di farmi delle foto in mezzo alla folla.
A questo punto sto ancora bene e lo starò fino al 35esimo o giù di lì, quando finisco vittima dei crampi. Forse mi sono idratata poco, anche perché dopo il 20esimo ho iniziato ad avere una sete folle che mi costringeva a fermarmi a ogni ristoro per afferrare due bicchieri d’acqua contemporaneamente. Sono costretta a pause di camminata ma è a quel punto che entra in gioco la testa. Dentro di me penso che sono a Central park e che un’esperienza del genere non mi ricapiterà probabilmente mai più. Stringo i denti e vado dritta, lentamente, fino all’arrivo dove un’ala di folla mi abbraccia e mi accompagna verso il traguardo.
Appena fermo le gambe, comincio a sentire dei dolori allucinanti ovunque. Non bene dato che sono consapevole di dover camminare ancora per un bel po’ per raggiungere l’uscita e il punto di recupero del poncho post gara. Per lenire la sofferenza mi attacco al telefono e inizio a chiamare Dario e poi mia mamma che aspettava mie notizie e che temeva cadessi e venissi schiacciata dalla folla come nella corsa dei tori di Pamplona. Poi mi chiama mia cugina Sara, una presenza preziosa in tutti questi mesi di dolore, che urla di essere orgogliosa di me come mia zia Luisa in lacrime per l’emozione. Penso soprattutto ai miei due angeli che mi hanno vegliata durante tutto il percorso…
Ma poi la stanchezza prende il sopravvento. Il punto più duro della maratona infatti è proprio quando la gara è terminata. Le misure di sicurezza costringono le persone a una lunga peregrinazione e, prima di arrivare in hotel, passa circa un’ora e mezza, nonostante alloggiassi a breve distanza da Central park. Faccio fatica a parlare e mi colpisce una nausea che mi sono portata dietro per due giorni.
Ora, a distanza di qualche giorno, riesco a rimettere insieme idee e sensazioni e a scriverne. Se consiglio la maratona di New York? Assolutamente sì a tutti coloro che amano la corsa, anche per l’eterogeneità di livelli presenti e per l’unicità dell’esperienza. Se la rifarei? Non so. Si dice che Paganini non ripete. Se rifarei una maratona (sarebbe la mia terza…)? Al momento la risposta è no. Ho bisogno di rimettermi in piedi e incanalare le energie su altri fronti. Per correre senza troppe restrizioni e senza troppe tabelle.
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